dal primo catalogo (novembre 1993)

 



Nemici del popolo

 

Una delle tante ridicole credenze degli sventurati è che le loro miserie debbano necessariamente suscitare simpatia.

Questa è davvero la più tenace delle loro convinzioni.

Non è mai troppo sbagliato dimostrare, nel loro stesso interesse, fino a che punto una simile convinzione sia grottesca. Se i diseredati fossero le vittime di una sorte implacabile e non potessero in alcun modo migliorare la loro posizione, senza dubbio si converrebbe di compiangerli e magari di trasformare in amore la pietà che ispirano. Ma non è affatto così. Gli sventurati non sono tali loro malgrado. Lo sono perché vogliono esserlo. Hanno posto volontariamente il collo sotto il giogo e preferiscono non levarlo. È dunque comprensibile che un certo numero di persone non provi nei loro riguardi alcuna compassione, o che addirittura provi rabbia e disgusto per tanta stupidità e tanto avvilimento.

Il “popolo” ha degli amici. Che se li tenga! In genere sono degni l’uno degli altri. Ma che abbia anche i suoi nemici, per quanto indegno di loro possa essere! Capisco che si possa essere amico di un povero animale, di un cavallo o di un asino condannato ai lavori più duri, senza difesa e senza parola. Non comprendo come si possa essere, ai giorni nostri, amici del popolo. L’abominevole e tirannica sottomissione popolare ha potuto avere, fino ad ora, degli alibi, delle giustificazioni: l’ignoranza o l’impossibilità materiale di una lotta. Oggi, il popolo è cosciente e sa dove trovare le armi adatte alla bisogna. Non ha più scuse.

 

Che cos’è il popolo? È quella parte della specie umana che non è libera, potrebbe esserlo e non lo vuole; che vive oppressa, fra incomprensibili sofferenze; o che opprime, con stupido godimento. Ed è sempre rispettosa delle convenzioni sociali.

È la quasi totalità dei poveri e la quasi totalità dei ricchi. È il gregge delle pecore e il gregge dei pastori. È la maggioranza delle Mani Callose e dei Denti Compiaciuti, degli Occhi Stanchi e dei Culi Rifatti. Agnelli, Berlusconi, il piccolo servo Trentin, l’immortale Andreotti, Umberto Eco, Vittorio Sgarbi, il cardinale Carlo Maria Martini, Pippo Baudo, Occhetto, i tre moschettieri Di Pietro-Colombo-Casson, Michele Santoro: fanno tutti parte del popolo, proprio come tutti i lavoratori e i disoccupati che chiedono salari e diritti.

 

Al di là del popolo ci sono gli individui, i fuori-popolo. È inutile fare nomi. Sono le persone che hanno nutrito odio per ciò che esisteva ai loro tempi e che hanno concretizzato questo odio secondo le personali attitudini e le proprie possibilità. Sono tutti quelli che odiano ciò che attualmente esiste, che rifiutano il cosiddetto contratto sociale e rifiutano di accordare la loro simpatia sia ai vigliacchi che l’accettano sia agli ipocriti che lo discutono. I fuori-popolo sono persone consapevoli che non esistono più vittime; che le sedicenti vittime della menzogna sociale sanno benissimo a cosa aggrapparsi di questa menzogna sociale e la accettano come verità solo per codardia o per interesse.

Fino ad ora, gli amici del popolo non hanno fatto che falsare i sentimenti più autentici, avendo per lo più esercitato o subìto il potere. Gli istinti sono stati talmente soffocati che l’Odio viene considerato come un vizio orribile, una passione inconfessabile che disonora l’infima minoranza che ancora tormenta. In effetti esso esiste raramente e si osa a malapena lasciarlo indovinare. C’è da credere che senza i grandi individui del furore che riaccesero la scintilla nei cuori degli esseri lanciandoli con o senza ragione gli uni contro gli altri, la facoltà di odiare avrebbe cessato d’essere una possibilità umana. Gli Spartaco, gli Attila, i Ravachol, i Bonnot meritano la nostra eterna gratitudine. Grazie a loro l’individuo non è ancora caduto al rango di pecora. Può ancora odiare. Può ancora essere scosso dalla più grande e dalla più generosa delle passioni.

Dal momento in cui un essere impara a odiare, cessa di appartenere al popolo. Il popolo non può odiare; non c’è odio fra i ricchi e i poveri che lo compongono, solo un certo grado di invidia. I ricchi confessano perfino di invidiare la fortuna dei poveri, lo riconoscono. Il popolo non può odiare neanche gli individui. Non può farlo. Li adora tremando; o li scomunica con un sospiro.

L’odio dell’individuo per il popolo dovrà essere intenso e costante. Prima o poi ciò accadrà, questo odio troverà formidabili mezzi di espressione. Ma per il momento è abbastanza difficile per un fuori-popolo odiare costantemente il belante gregge. Così come è altrettanto difficile per un amico del popolo conservare a tutte le temperature una uguale umidità delle palpebre. L’anarchico buono può digrignare i denti, di tanto in tanto; ed il rivoluzionario autoritario potrebbe avere una lacrimona negli occhi, non ne sarei sorpreso. Questione di ambiente, di momento, chi lo sa? Quando si ghigliottinerà il Papa, sarà l’anarchico buono a domandare che gli si lasci il tempo di dire la preghiera, e sarà forse il rivoluzionario autoritario a tirare la cordicella come risposta.

Comunque la distinzione tra amici e nemici del popolo non si limita ad indicare una differenza di temperamenti: separa due idee generali. La considerazione delle idee generali serve per evitare perdite di tempo. Ognuna delle due idee generali indica una strada diversa da seguire verso uno scopo che è — ne convengo — instabile e abbastanza vago e che si può richiamare alla felicità; ma che ritengo sia sufficiente denominare altro.

 

La via preconizzata dall’anarchico buono, la conosciamo. È la Sacra Via dei fallimenti. I segnali indicatori sono scientifici a sinistra e religiosi a destra. Del resto, non ci si può sbagliare: le lapidi, ornate coi nomi dei Riformatori, indicano la via. Solitamente si muore in cammino, ma se si raggiunge lo scopo, si può assurgere fino al cielo delle felicità ideali. Non farò all’anarchico buono l’offesa di dire che è in buona fede. Me ne frego di lui da tempo e non lo rimpiango affatto. Non che manchi di stima per lui; bisognerebbe essere pazzi per disconoscere la rettitudine del suo carattere. Ma le sue tendenze romantiche, a mio avviso, sono nefaste; bisogna impedirgli di fare scuola. Un anarchico buono, va bene; un partito di anarchici buoni, no. L’anarchico buono, prima di ogni altra cosa, è un confidente. Ha fiducia in ogni possibilità, è tollerante e si ferma davanti al «libero corso delle nostre istituzioni», proprio così. Difende la Democrazia dalle coalizioni clerico-autoritaria. La difende — come fanno altri amici del popolo, meno disinteressati di lui — in nome dei Princìpi, convinto di rendere in tal guisa un servizio al popolo, di cui è l’amico fedele. Ed è ancora per servirlo che si arruola nella marmaglia pacifista.

L’anarchico buono ci informa che il pacifismo può essere utile; anche i preti ce lo fanno sapere. Ci insegna, inoltre, che il pacifismo ha sempre lottato contro il potere e che ha canalizzato i propri sforzi verso questo mirabile obiettivo: la liberazione dell’umanità. Mi dispiace dire all’anarchico buono che si sbaglia. Si sbaglia in buona e numerosa compagnia — questo è vero — insieme a tutti i sinceri democratici; ma si sbaglia.

 

La soppressione del capitalismo e dello Stato, è la sola possibilità che abbiamo per cambiare le cose. Sarebbe bello credere nelle favole e pensare che i potenti abbandoneranno volontariamente i propri privilegi senza scagliarci contro i loro scagnozzi. Ma poiché invece reagiranno con forza, dovremo pur combatterli in qualche modo. Quale?

Invito l’anarchico buono a consultare il suo Venerabile, dal quale senza dubbio potrà ottenere qualche informazione in merito. Del resto, i “documenti storici” non sono introvabili. Scoprirà cose che lo stupiranno. Perderà probabilmente un po’ della sua fede nei Princìpi, un po’ della sua illimitata fiducia. Ma ho già detto che oggi non esistono più vittime.

È soprattutto questo che vogliono i nemici del popolo: non essere vittime. E neanche fingere di esserlo.

Non sono amici del popolo perché ritengono che il popolo, che non si ama da sé, non sia affatto amabile. Pensano che il popolo sia solo un gregge e lo pensano perché constatano che il popolo è un gregge. In spregio ai cataplasmi umani che modellano con la loro accomodante commiserazione i vecchi ascessi sociali, i nemici del popolo vogliono ben altro, cercano l’autentico, l’immediato. Pensano che molti mezzi siano buoni — anche fra quelli che agli amici del popolo appaiono atroci — e che il criterio della loro scelta non dipenda dal popolo, non rappresentando affatto il loro referente.

Sostengono che esiste un solo crimine: l’inazione. Non cercano di conformare i propri gesti ad un Ideale, che non solo è pregiudiziale, ma putrefatto fin dalla preconcezione. Lasciano che l’ideale si sprigioni da sé, dai fatti e dalle azioni. La via che preconizza il fuori-popolo, la conosciamo molto poco. Ragione di più per esserne interessati.

Siamo certi che non incontreremo ad ogni passo i fetenti residui del Passato, come accade sul percorso del rivoluzionario autoritario: la Bastiglia, il Palazzo d’Inverno, etc. Non sappiamo bene dove andremo e lo confessiamo con piacere; ma sappiamo come ci andremo. Andremo come cazzo vorremo! Non ci interessa il compito di liberare l’Umanità. Vogliamo soddisfare il nostro bisogno di libertà, adesso, subito. Il fuori-popolo è pieno di illogicità. Speriamo che non se ne liberi. La fantasia è sovente più necessaria dei Princìpi.

Ma l’individuo che rifiuta tutte le dottrine ritenute sacre dal popolo e dai suoi amici, non deve condannarsi al semplice ruolo di “protesta vivente”; non vi troverebbe che un piacere insufficiente. Dopo tutto, proverà gioie maggiori a distruggere gli idoli che non divertendosi con le controversie dei loro fedeli. Del resto, più le superstizioni delle masse diminuiranno di virulenza, più grande sarà la libertà d’azione lasciata all’individuo. Il quale ha dunque interesse a far precipitare, per egoismo, la lotta fra le due parti che compongono il popolo: gli esseri che non hanno niente e rispettano la proprietà; gli esseri che hanno tutto e rispettano la miseria. Gli è necessario, di conseguenza, rendere la propria posizione più solida possibile, sia per l’attacco sia per la difesa.

Caratteristica delle pecore del popolo, o dei suoi amici, è la loro ostinazione a porre al di fuori di sé, in formule vuote e astratte, le proprie speranze e le cause delle loro tristi energie.

La caratteristica del fuori-popolo, viceversa, deve essere la sua ferma risoluzione di porre in se stesso i propri moventi e i propri desideri.

Essendo l’uomo un animale terrestre — cosa trascurata dal popolo e dai suoi amici, che sono cittadini delle nuvole — l’individuo deve restare in stretto rapporto con la sua normale base, la Terra. Deve opporsi a questa mostruosità: la scalata al Cielo. Proprio perché l’individuo è radicato nel fango deve fare tutto il possibile per mettere fine all’abominio idealistico che è l’aspirazione al Paradiso. La marcia dell’individuo, lungi dall’essere una nuova marcia verso le stelle, sarà il percorso sempre più libero su una terra sempre più libera.

 

Queste ultime considerazioni, che ammettono una progressione, non devono affatto farmi scambiare per un evoluzionista. Credo alle rivoluzioni che producano non leggi (sterili) ma metodi (fecondi). È necessario contrastare l’opinione determinista e fatalista secondo cui una rivoluzione umana è un «fatto scientifico» e «nessuno può farci niente». Una rivoluzione scaturisce anche da un atto di volontà.

L’anarchico buono, naturalmente, crede che una rivoluzione sia sempre la «conseguenza ineluttabile di bla bla». Quella che si prepara, secondo lui, sarà «il risultato dell’evoluzione di un secolo formidabilmente industriale». Lo sviluppo industriale e scientifico, è vero, potrà offrire potenti mezzi d’azione alla rivoluzione. Ma non conduce per questo a una rivoluzione, al contrario. La sua azione, se non ostacolata e impedita, condurrà al dominio di una classe di “tecnici” privilegiati. Una parte sola del lavoro umano — la meno necessaria — è ora remunerata; la tendenza s’accentua. Contemporaneamente cresce il dogma mostruoso della bellezza, della santità del Lavoro. Una grande parte della specie umana è rigettata nel nulla sociale. Fra questa saranno i fuori-popolo, coscienti o incoscienti, a spingere la rivoluzione, a costringere il popolo a tagliarsi la gola — infine! E se questa rivoluzione sarà «il risultato dell’evoluzione etc», bisogna considerare che questo risultato sarà assai indiretto.

In ogni caso, non sarà di certo “una vittoria proletaria”. Questa non è possibile. Il Popolo, ricco o povero, il popolo produttore di bambini, il popolo che si perpetua in piccoli milionari e in piccoli morti di fame — questo Proletariato dell’Autorità e dell’Obbedienza — ha già avuto la sua vittoria. Ha avuto la vittoria in cui poteva sperare. Ne gode. Ne abusa. Non ha che la sconfitta da attendere. Ed è bene che sappia che gli viene augurata — questa sconfitta — dagli individui che non nutrono per lui che odio e che gli rifiutano una simpatia che considerano complicità.    

 

Gratis si occuperà anche dei fuori-popolo, di queste donne e uomini della collera e del furore, di questi nemici del popolo e delle convenzioni sociali. Ma non ne farà una cieca esaltazione.

Non forgeremo nuovi idoli davanti a cui inginocchiarsi. Ciò che vogliamo è soffiare sul fuoco, incitare all’odio sociale, fomentare la rivolta. Come sempre, per sempre.

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